martedì 16 novembre 2010

Faccio il conciliatore, dunque lo sono

In Italia è stata introdotta in modo organico solo a partire dagli anni ’90, pur essendo una pratica già largamente diffusa e consolidata in altre parti del mondo.
In realtà quella della soluzione “mediata” dei conflitti è una pratica antichissima, di cui si trovano tracce a partire dalla civiltà sumerica.
Verrebbe quindi da dire che la propensione alla mediazione è insita nella natura più profonda degli esseri umani.
Da ciò la considerazione che se la conciliazione stenta ad essere adottata come pratica diffusa le ragioni sono da ricercare piuttosto in meccanismi di tipo culturale.
Proveniente per osmosi dai paesi anglosassoni, notoriamente pragmatici, questa modalità di approccio e gestione, prima ancora che di soluzione, dei conflitti è andata in rotta di collisione con la mentalità che domina l’Occidente.
Per secoli, infatti, abbiamo respirato una cultura “avversariale”,  fondata cioè sull’essere avversari, sul dover scegliere tra l’uno o l’altro, sul dover stabilire torti e ragioni prendendo posizioni e ragionando per esclusione.
Tutto ciò, fatalmente, ha portato la nostra società a cercare le soluzioni alle liti nei tribunali, cioè in luoghi in cui un giudice stabilisce, applicando le leggi, chi ha ragione e chi torto.
Da qui i tribunali intasati di cause e i conseguenti tempi estenuanti di soluzione delle liti.
Da queste ultime constatazioni nascono due differenti considerazioni: in primo luogo l’allungarsi dei tempi di soluzione spesso comporta ulteriori aggravi, in termini economici ed emotivi, su parti che già sono, in qualche modo, penalizzate dal conflitto in cui si trovano. In secondo luogo spesso le soluzioni non sono percepite come tali, nel senso che se alla fine del processo qualcuno avrà “vinto” la causa inevitabilmente l’altro l’avrà “persa”.

La conciliazione rappresenta il tentativo concreto di andare oltre la logica dell’avversarietà per promuovere quella dell’alleanza, dell’accordo amichevole e condiviso. E’ un rovesciamento di paradigma che in primo luogo deve avvenire all’interno di chi sceglie di intraprendere questa strada diventando conciliatore.

Il processo stesso della conciliazione impone questo salto di paradigma, poiché è proprio il conciliatore e la sua abilità ad essere determinante sul positivo esito dell’attività che svolge.
Le abilità relazionali del conciliatore, infatti, svolgono un ruolo determinante a partire dall’approccio, per proseguire nella gestione e per finire nella risoluzione del conflitto di fronte a cui si trova.
Prima ancora che essere un percorso per acquisire delle tecniche, la scelta di abbracciare questo ruolo implica un percorso personale, in cui è necessario prima di tutto ammettere e riconoscere che l’educazione e la cultura in cui si è vissuti hanno inevitabilmente prodotto pregiudizi e stereotipi. Un buon mediatore è colui che arriva a considerare relativo, e quindi mutevole, qualcosa che è abituato a pensare come assoluto. L’ideale è essere così forti da non rimanere attaccati alle nostre opinioni e vincere la paura dell’imprevisto.

Occorre essere capaci di  accettare, riconoscere pari dignità alle persone rinunciando alle presunte certezze e verità assolute in favore della relazione.
Pur rimanendo “equidistante” - o meglio “equivicino” - ai suoi interlocutori, il conciliatore sa accoglierli così come sono, ascoltarli e capire il loro mondo, comprendere il loro punto di vista non filtrandolo attraverso il suo.

Questo atteggiamento di apertura è base e fondamento di tutto il processo e su di esso si baseranno la fiducia che saprà conquistarsi e l’autorevolezza con cui guiderà gli interlocutori lungo la strada che li porterà a trovare un accordo soddisfacente  e condiviso.
Su questa apertura si fonderanno le scelte che farà lungo la strada, il modo in cui saprà raccogliere le informazioni che gli servono per riannodare i fili interrotti della comunicazione disfunzionale tra gli interlocutori, scegliendo di volta in volta le modalità più opportune.
E’ su questo tipo di disposizione dell’essere che si dipana il fare nella gestione del conflitto, dalla stretta di mano iniziale degli interlocutori con il conciliatore a quella finale degli interlocutori tra loro.

Bibliografia
Bruni A.  – Conciliare conviene – Maggioli Editore – 2007
De Sario P. – Professione facilitatore – Franco Angeli -  2005
Harris, T. – Io sono Ok – Tu sei OK – BUR 1987

lunedì 15 novembre 2010

L’ascolto nella mediazione

L'ascolto, in una mediazione, serve a produrre due enormi vantaggi: raccogliere dati preziosi, e dare importanza agli interlocutori (ottenendone in cambio, come naturale conseguenza).
Ascoltare è molto diverso da “sentire.
E’ molto lontano anche da “rispondere”, lontanissimo da “replicare”.
L’opposto di “discutere”.

La richiesta di ascolto è connaturata ad ogni essere umano: chiunque ha bisogno di riconoscimento, cioè di  essere riconosciuto dagli altri nella propria identità, nel proprio io e nelle proprie esigenze e difficoltà (in genere reali, a volte presunte...) ed aspirazioni.

Un mediatore capace di ascoltare riesce a conoscere meglio l'altro e, quindi, a tenere meglio sotto controllo la componente emotiva del rapporto che, non potendo essere eliminata del tutto, va gestita in modo efficace.
L’arte di ascoltare può essere imparata. La strada verso la padronanza di quest'arte passa attraverso l'ascolto attivo, cioè un modo di ascoltare che non si limita a recepire, ma che "prende l'iniziativa" per stimolare e gratificare la controparte, e in tal modo testimoniarle riconoscimento. Per offrire questa testimonianza nel miglior modo possibile bisogna sforzarsi di non giudicare. Si accetta l'altro com'è, semplicemente lo si ascolta, e anzi gli si dimostra che si va oltre l'ascolto, si punta alla comprensione. Le tecniche per conseguire questo obiettivo sono diverse e articolate, pur se sostanzialmente semplici e di facile padronanza.

L’ascolto attivo permette di raggiungere diversi obiettivi importantissimi per l’esito finale di una mediazione:
  1. aiuta a risolvere i problemi degli altri dando loro l’occasione di parlarne e di chiarire, così, il loro pensiero;
  2. riduce la tensione e dare all’altro la possibilità di sfogarsi, liberando l’atmosfera da tensioni e ostilità;
  3. facilita la collaborazione da parte di chi, sentendosi accolto ed accettato, smette di difendere ad ogni costo il suo punto di vista;
  4. promuove la comunicazione che spesso si interrompe perché una delle parti ha smesso di ascoltare;
  5. sviluppa una mente attiva nella costante ricerca di ciò che sottende l’argomentazione posta al livello cognitivo;
  6. può accrescere il concetto di sé e dell’altro che acquistano pari dignità, pari livello e pari valore.

Ascolto attivo significa:
1. sospendere i giudizi, non definire l'interlocutore o quello che dice. Dobbiamo solo seguire il suo pensiero, ascoltate per capire e non per giudicare;
2. osservare ed ascoltare, raccogliendo tutte le informazioni necessarie sulla situazione contingente;
3. mettersi nei panni dell'altro, cercare di assumere il punto di vista del proprio interlocutore e condividendo le sensazioni che manifesta;
4. verificare la comprensione, facendo domande, parafrasando, chiarendo, riassumendo ciò che abbiamo capito o gli aspetti concreti di ciò che l’interlocutore ci ha detto.

Le ''Sette Regole dell'Arte di Ascoltare'' di Marianella Sclavi:
  1. Non avere fretta di arrivare a delle conclusioni. Le conclusioni sono la parte più effimera della ricerca.
  2. Quel che vedi dipende dal tuo punto di vista. Per riuscire a vedere il tuo punto di vista, devi cambiare punto di vista.
  3. Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva.
  4. Le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali se sai comprendere il loro linguaggio. Non ti informano su cosa vedi, ma su come guardi.
  5. Un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili. I segnali più importanti per lui sono quelli che si presentano alla coscienza come al tempo stesso trascurabili e fastidiosi, marginali e irritanti, perché incongruenti con le proprie certezze.
  6. Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e della comunicazione interpersonale. Affronta i dissensi come occasioni per esercitarsi in un campo che lo appassiona: la gestione creativa dei conflitti.
  7. Per divenire esperto nell'arte di ascoltare devi adottare un metodo umoristico. Ma quando hai imparato ad ascoltare, l'umorismo viene da sè.
E per finire una carrellata sulle cattive abitudini (e pessima educazione) per riconoscere a colpo d'occhio di quelli che non ascoltano:

   1. interrompono
   2. saltano alle conclusioni
   3. finiscono la frase mentre l’altro sta ancora parlando
   4. cambiano argomento di frequente
   5. non fanno attenzione al linguaggio del corpo
   6. non rispondono a ciò che gli si dice
   7. non fanno domande e non danno un feedback
   8. cercano di convincervi con la logica
   9. svalorizzano
  10. interpretano
  11. consolano
  12. danno ordini
  13. mettono in guardia
  14. fanno la predica.


Bibliografia
Burley –Allen M.  – Imparare ad ascoltare – Franco Angeli  2003
Liss J. – L’’ascolto profondo – La Meridiana 2004
Fisher R. Brown S. – Troviamo un accordo  Corbaccio 2008